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L'archivio del diavolo (2020)

par Pupi Avati

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Quando don Stefano Nascetti viene trasferito alla parrocchia di Lio Piccolo, abbandonando sul nascere una bella carriera nella curia veneziana, la sua non ©· una scelta: ©· una fuga dalla vendetta del questore Carlo Saintjust, a cui lo legano un tradimento e un'offesa mai dimenticati. Ma il tranquillo paesino nel Polesine non ©· il rifugio che si aspettava. © troppo pericoloso e ambiguo il fascino della giovane maestra Silvana ed ©· troppo orribile la storia che assieme a lei gli accade, letteralmente, di dissotterrare: quella del funzionario ministeriale Furio Moment©·, scomparso mentre indagava sull'omicidio commesso da un ragazzino, lasciando dietro di s©♭ una compromettente valigia di documenti. Con il ritrovamento di ben due cadaveri di incerta attribuzione, il sostituto procuratore Malchionda ©· costretto a riaprire un caso che aveva chiuso con eccessiva fretta. Ma sulle ricerche degli inquirenti, sia a Venezia sia a Roma, si stende l'ombra velenosa di un Male molto pi©£ antico e inspiegabile di quello commesso da qualunque omicida. In questo romanzo gotico, che mescola thriller e horror, suggestioni letterarie e superstizione popolare, Pupi Avati ci riporta nei luoghi e nelle atmosfere del Nordest contadino degli anni Cinquanta. Mentre le vite dei personaggi corrono verso il loro destino, la mano del narratore ci trascina in un intreccio senza scampo, in un mondo antico fatto di terra, acqua e mistero, intriso di verit© troppo terribili per poter mai essere davvero rivelate.… (plus d'informations)
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Romanzo ben strano, questo, che è il seguito del bellissimo e terrificante Il Signor Diavolo, letto nel 2018.

Ho iniziato e dopo poche pagine già sono trasecolata perché l'autore piazza subito un colpo di scena inaspettato che toglie qualsiasi certezza al lettore: ho ripreso immediatamente in mano Il Signor Diavolo per verificare di ricordare bene il finale (e infatti era quello: come si fa a dimenticarlo??) e già che c'ero allora mi sono riletta tutto il primo romanzo in un paio d'ore, per poi (ri)cominciare finalmente il seguito, L'archivio del diavolo.

La lettura senza soluzione di continuità delle due parti della storia ha fatto risaltare ancora di più le somiglianze (la stessa atmosfera da incubo, morbosa e ossessiva) ma soprattutto le differenze tra i due romanzi (l'orrore stavolta poggia di meno sull'evocazione di un cattolicesimo cupo e "ancestrale" ed è più "metafisico", con il fil rouge delle allucinazioni ipnagogiche o del "bacino" di pensieri collettivi cui, in determinati stati della coscienza, si può accedere).

Ma la differenza più evidente è nello stile, che è completamente diverso rispetto a Il Signor Diavolo: lì un narratore in prima persona cui facevano da contrasto, ogni tanto, inserti pseudo-documentari con verbali di interrogatori e di deposizioni di testimoni, qui un narratore super-onnisciente che spiattella tutto di tutti i tantissimi personaggi, buttati lì e "presentati" in poche righe (potremmo definirlo il contrario dello "show, don't tell", per dare l'idea), frasi secche, brevi, perfino tirate via in alcuni punti. Questo diversità nell'approccio alla materia, un po' sconcertante (tanto più per me che avevo solo pochi minuti prima finito di rileggere il primo libro), è talmente evidente che ho pensato fosse un artificio voluto: nella premessa a L'archivio del diavolo un personaggio che si qualifica solo come "F.B." e che scrive nel 1980 (ad anni di distanza dalla storia narrata, che si svolge nel 1953) sembra presentare il testo che stiamo leggendo come uno pseudomanoscritto di un altro dei personaggi, Franco Ciani, insomma il classico espediente del libro finto nel libro vero. E se Avati avesse proprio cercato di creare il testo di uno che scrive "male"? Per inciso, si spiegano così anche le "note" biografiche sui personaggi, come una sorta di intervento del "curatore" (sempre fittizio, l'F.B. di cui sopra) su questa materia che si finge il resoconto di fatti realmente accaduti

Tutto voluto, quindi? Non so, non vorrei dargli... più credito di quel che merita, perché comunque si tratta di un libro meno riuscito de Il Signor Diavolo (il fatto che si intreccino tante, tantissime storie da una parte lo rende un po' confuso e fin troppo affrettato in alcuni punti, dall'altra parte è innegabilmente intrigante vedere se e come tutti i fili si congiungeranno); c'è anche un errore nella "continuity" che è segno di scarsa cura: mentre nel primo libro Malchionda era sposato con due figli (p. 50), qui è invece scapolo (che Malchionda sia sposato o no è praticamente ininfluente nella trama di entrambi i libri, e l'ho notato solo perché come dicevo li ho letti tutti e due uno dopo l'altro in rapida successione, però ciò non toglie che sia un errore).

Fino a qui ho parlato solo dello stile, due parole sulla storia. Siamo a circa un anno di distanza dagli atroci fatti di Lio Piccolo, un caso considerato ormai chiuso (l'istruttoria condotta da Malchionda ha portato al processo e alla condanna del minore responsabile), eppure questo desolato paesino della laguna veneta continua ad attrarre nella sua orbita malefica, perché è lì che viene mandato, per allontanarlo da Venezia e da un possibile scandalo, un giovane prete dall'incerta vocazione, don Stefano. E la chiesa di Lio Piccolo non tarda a rivelare gli orrori che nasconde, tornando al centro delle indagini della magistratura.

Non è facile, anzi è praticamente impossibile, riassumere la trama, che è fatta di tante storie che procedono all'inizio parallele e apparentemente slegate l'una dall'altra, ma il lettore, a differenza dei personaggi, sa fin da subito che c'è qualcosa di terribilmente "sbagliato" in quello che sta accadendo (vedi quel che dicevo all'inizio di questa recensione sullo shock iniziale provato) e trema al pensiero di come i nodi verranno al pettine. Avati anche qui prende gusto nel calcare la mano sul macabro più insostenibile, quasi grottesco (la putrefazione, le sepolture premature, le riesumazioni), e sull'evocare riti e gesti "antichi" dei quali evidenzia i lati più sinistri, creando, insieme con la generale desolazione umana di cui dirò più avanti, l'atmosfera inquietante e angosciosa che pervade tutto il libro.

L'autore però non ha voluto o saputo ripetere l'exploit del finale sconvolgente e memorabile del primo libro, perché qui all'improvviso la storia imbocca una strada alquanto bizzarra e imprevista (sempre lo stesso problema di fondo: la presentazione "a passo di corsa", a inizio romanzo, di questa antica inimicizia fra don Stefano e il questore non è sufficiente, per il lettore, per far sì che venga ritirata fuori all'improvviso e in modo così eclatante e dirompente; che c'entra poi che di punto in bianco il questore voglia sbarazzarsi della moglie, una cosa che sbuca fuori dal nulla senza che nessuno vi abbia mai accennato prima?), accantonando quasi il grande e terrificante mistero evocato per tutto il libro e che invece, quello sì, ti tiene incollato alle pagine (chi o che cosa si trova nell'archivio del Ministero? È Momentè, il cui cadavere però proprio negli stessi momenti viene recuperato dalla cripta della chiesa di Lio Piccolo?). Il finale è nerissimo, ma forse stavolta un pelo eccessivo e scioccante solo per il gusto di esserlo.

Mi è piaciuto o no, allora? Devo dire in fondo di sì, pur coi suoi difetti, penso che poche volte ho provato così tanta paura leggendo un romanzo horror come con Il Signor Diavolo e questo suo seguito, ma questo secondo libro l'avrei voluto un po' diverso: non per forza doveva ricalcare in tutto il predecessore (ripeto che l'aver allargato gli orizzonti e immaginato tante storie diverse e oscuramente e fatalmente convergenti è tutto sommato un punto di forza), ma è come se la storia fosse uscita in modo troppo "vulcanico" dalla mente dell'autore, e ne sia risultato un libro fatto troppo di fretta: ha quasi 300 pagine ma per tutto quello che Avati ha voluto metterci avrebbe potuto scriverne anche il doppio!

Chiudo però mettendo un attimo da parte il paranormale, perché anche qui, come ne Il Signor Diavolo, l'impressione è che a ben guardare si sia voluto raccontare anche (o forse soprattutto) l'orrore vero di un'umanità vile, meschina, rancorosa, ipocrita, partigiana, opportunista, volgare, frustrata, più attenta alla forma che alla sostanza (forse anche così trova giustificazione il frequente e apparentemente stonato, in un romanzo, ricorso al "burocratese", nelle note apposte da "F.B.", ad esempio, che sono di fatto inutili e pedantesche, credo a bella posta, e che ad alcuni lettori hanno dato fastidio). Tutti gli squallidi personaggi, dai potenti agli uscieri del Ministero, si muovono un'atmosfera gretta, angusta e soffocante di cui Avati permea questo suo scorcio di anni Cinquanta italiani, ma che forse si può ritrovare anche in altre epoche della nostra storia. ( )
  Moloch | May 13, 2023 |
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