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La luna e i falo: il compagno

par Cesare Pavese

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La luna e i falò
Con il susseguirsi dei romanzi, la scrittura di Pavese si fa più densa, così che i testi si accorciano diventando al contempo più sfaccettati, ricchi come sono di molteplici spunti e sensazioni. Inevitabile che fra queste pagine, le ultime pubblicate dall’autore piemontese, il processo sia giunto a un significativo livello di perfezionamento andando a innervare un libro che emoziona in profondità lasciando a più riprese il lettore ad annaspare meravigliato nell’abbraccio di lunghe descrizioni interiori ed esteriori che mettono sovente in secondo piano il dialogo. Lo scrittore prima blandisce dipingendo una sorta di idillio agreste per poi disturbare narrando con dolente partecipazione l’asperità della vicenda umana sino a inserire una nota di gotico delle Langhe nella sventurata famiglia del Valino. Poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale, il protagonista, che come al solito parla in prima persona, torna da uomo realizzato nel paese dove è cresciuto trovatello con il soprannome di Anguilla, prima nella povera casa del Padrino (grazie ai contributi elargiti a chi si prendeva un orfano da sfamare) e poi nella signorile tenuta della Mora: un insopprimibile desiderio di fuga l’ha portato prima a Genova e poi negli Stati Uniti, dove il suo spaesamento è reso da un’atmosfera tanto distaccata e sterile quanto appassionata è quella che avvolge i luoghi d’orgine, finchè le radici non hanno chiamato. Ritrova il vecchio sodale Nuto che, al polo opposto, è rimasto accanto alla propria gente e – al suo fianco anche quando cerca di opporvisi – penetra a fondo nella realtà locale scoprendo che le ombre prevalgono sulle luci. I piani temporali risultano intersecati, con il passato che tende a prendere il sopravvento attraverso episodi più lunghi, mentre quelli che descrivono il presente sono limitati sovente a solo un paio di pagine: indipendentemente dall’estensione, i singoli capitoli sono spesso dei piccoli racconti a sé, lavorati con cura alla ricerca di un equilibrio interno. E’ come se, dopo il luminoso piano sequenza iniziale che coglie la valle del Belbo piena di sole (l’io narrante vi trascorre le vacanze estive), Pavese utilizzasse uno zoom per stringere la visuale addosso alla piccola comunità mettendo in luce magagne antiche e nuove: oltre alle feste di piazza e al lavoro dei campi (della vigna) che a un ragazzo pare un’esperienza comunque vivificante, ci sono le piccole miserie di ogni giorno, i bisogni concreti e quelli fittizi, le difficoltà delle relazioni interpersonali. Il crollo dei punti di riferimento giovanili è al contempo un ritratto dell’imprevedibilità dell’esistenza, con il caso che a volte gioca a dadi con i poveri – ad esempio, la triste fine del Padrino - e una certa debolezza spirituale che frega i benestanti (sempre meno benestanti di qualcun altro) come la in apparenza intoccabile famiglia del Cavaliere: impossibile non vedere un certo parallelismo nei destini delle sorellastre di Anguilla e delle figlie viziate del padrone della Mora. Uomini che mirano ai soldi o alla roba (poca o tanta che sia), botte, femminicidio: durissimo è il destino delle donne in questo libro, fino alle angoscianti scene nella povera fattoria del Valino al cui ineluttabile fato riesce a sfuggire solo Cinto, il piccolo storpio in cui il protagonista un po’ si rivede. Una storia, quest’ultima, che spiega, assieme alla detestabile figura del parroco, come, malgrado i sogni e le speranze, non molto sia cambiato tra prima e dopo la guerra che Nuto ha vissuto a fondo anche se non ne parla volentieri, in fondo è pur sempre un piemontese. Solo quando pensa che Anguilla non riesca del tutto a capire, lo trascina con sé in faticose camminate su per le colline - in mezzo a una natura matrigna, tra sterpi ed erbacce ingiallite e sassi, ben lontana dalla dolcezza della vigna – nell’attesa di rievocare l’orrore che genera l’esperienza bellica quando tocca da vicino in una chiusa secca e terribile.

Il compagno
Ovvero della presa di coscienza delle masse. E’ lo stesso Pavese ad annotarlo in una breve postfazione: dopo le opere dedicate alla nascita della ribellione nelle classi più colte o agiate, è giunta ora di raccontare come pure gli strati più popolari hanno cominciato a non accettare più l’opporessione del regime (l’azione si svolge indicativamente alla fine degli anni Trenta). Non è però il suo essere a tesi a zavorrare il romanzo – in fondo lo sono tutti i lavori dello scrittore piemontese e ciò non impedisce loro di essere in molti casi dei capolavori: il problema è che si succedono i capitoli, ma la scintilla non scocca mai, lasciando il lettore orfano di una partecipazione emotiva che non può essere certo compensata dall’architettura intellettuale. Non contribuiscono i forse troppi personaggi che affollano quelle che sono comunque solo centocinquanta pagine: è difficile entrare in sintonia già a partire dalla figura principale. E’ probabile che l’antipatia che ispira per tre quarti almeno della vicenda sia funzionale al progetto di base, ma la caratterizzazione risulta spesso forzata: Paolo, detto Pablo perché suona bene la chitarra, è un giovanotto senza arte né parte che ignora il negozietto di famiglia per trascorrere notti di bagordi tra sbronze, balere e, se possibile, donne. Di queste ultime, va a scegliersi quella dell’amico appena rimasto paralizzato e la ragazza, Linda, lo mette in contatto con un danaroso impresario teatrale e il suo giro: le debosce assomigliano parecchio a quelle de ‘Il diavolo in collina’ – seppur qui, magari per il minore coinvolgimento, risultino più stereotipate - finchè la donna molla Pablo per l’impresario suddetto (nonchè per i suoi soldi) facendo sprofondare il protagonista in un mare di lacrime o, per essere più precisi, di bottiglie di vino. La faticosa risalita avviene attraverso il lavoro manuale e il trasferimento da Torino a Roma, in una primavera e in un’estate calde e accoglienti tanto quanto era stato freddo e umido l’inverno padano: un processo lento che si sviluppa come conseguenza dei contatti, oltre che con i libri, con gli embrioni delle varie sfaccettature della resistenza che fanno crescere l’uomo sia sul lato pubblico, sia su quello privato. Il giudizio politico è peraltro deciso, oltre che datato, con la contrapposizione tra il velleitarismo del gruppo che ruota attorno al gobbo Carletto e l’organizzazione comunista in cui lo introduce Giuseppe fino a farlo incontrare con Gino, reduce dalla Spagna sconfitto ma intenzionato a continuare a lottare. L’eccesso di strumentalizzazione che ne deriva conduce alla mancanza di sintonia accennata in precedenza, a partire da Linda che si rivela poco più che una smorfiosa opportunista con la quale Pablo non trova di meglio che ricascarci anche a distanza di tempo: i loro dialoghi, spezzati e senza coesione, ben rappresentano le difficoltà di comunicazione presenti in tutto il libro. Così, benché si parli moltissimo, a rimanere nella memoria sono soprattutto alcuni splendidi squarci descrittivi: le notti torinesi ora nebbiose ora limpide con la luna che fa brillare la neve oppure le tinte rotonde dei pomeriggi e delle serate romani trascorsi passeggiando lungo il fiume o chiacchierando sotto il pergolato di un’osteria. ( )
  catcarlo | Mar 3, 2017 |
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