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Il mare salato. Il Mediterraneo di Dante, Petrarca e Boccaccio

par Roberta Morosini

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Il Mediterraneo non e? solo geografia, ricordava lo scrittore Predrag Matvejevitc?. Risalendo alla definizione di "mare salato" dei Greci, che per primi lo definirono ?????, cioe? "sale", l'autrice prova a "leggere" il Mediterraneo come spazio letterario, per condividerne la storia e i suoi protagonisti. Come si racconta il mare e che ruolo ha nella Commedia di Dante? Come viene rappresentato e cosa significa per Petrarca? E come lo racconta Boccaccio? In un appassionante viaggio tra testo e immagine, il volume analizza e ricostruisce questi tre modi diversi di vedere il Mediterraneo. Il risultato e? un acquarello dai colori non sempre vividi, ma realistici, di uno spazio geografico specchio mobile e ibrido che riflette le tensioni e le incongruenze "reali" del nascente urbanesimo medievale. Vero e proprio locus operandi, il mare diventa spazio privilegiato della celebrazione dell'ingegno e dell'operosita? umana e della letteratura che li narra. Da queste pagine la testimonianza e la speranza di un Mediterraneo pacifico che trova, e ritrovi, la sua essenza nel suo essere tra discordanti liti, come scrive Dante, ossia un mare che celebri la diversita? delle sue coste, un mare ponte capace di unire culture, tradizioni, fedi diverse. --… (plus d'informations)
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Prof.ssa Roberta Morosini, Lei è autrice del libro Il mare salato. Il Mediterraneo di Dante, Petrarca e Boccaccio edito da Viella: quali suggestioni evoca il Mediterraneo nella sua trasfigurazione letteraria?

Dico subito che il libro prova che il mare Mediterraneo possa essere oggetto di letteratura contrariamente a quanto sembrano credere i Mediterranean Studies. Da studiosa del Trecento, di Dante, Petrarca, Fazio degli Uberti e Boccaccio avevo notato l’interesse e il fascino che questi autori hanno per il Mediterraneo e alcuni anni fa ho cominciato una piccola ricerca sui rapporti tra mare e letteratura attraverso testi e immagini (il libro ha ben 72 illustrazioni a colori), in un contesto geo-politico, come spazio letterario-culturale perché «il Mediterraneo non è solo geografia», come insegna Predrag Matvejevitć al quale ho voluto dedicare il mio saggio. Ho avvertito fin dall’inizio dei miei studi i limiti dei “Mediterranean studies”, orientati su temi prettamente storici o antropologici o geopolitici o postcoloniali e mai su aspetti o documentazione letteraria. Ma, seguendo alcuni suggerimenti di Pedrag Matvejevitć ho gradualmente elaborato un tipo “archeologia minimalista” che ricava da testi letterarie un mare in cui pulsa non solo la vita dei popoli che vivono sulle sue coste ma degli “individui” che su quelle coste vivono la loro vita nel quotidiano e negli affetti reali che le grandi storie non ci fanno mai vedere. Ho sviluppato per mio conto una serie di studi attenti ai particolari che non si vedono nelle mappe ma che si trovano nei testi letterari, una serie di dettagli che conducono poi nell’insieme a dare un quadro di un “altro” Mediterraneo e di chi lo attraversa, perché tiene conto di ogni viaggio nella sua fenomenologica peculiarità. L’attenzione si è spostata in superficie, sull’acqua, quindi su questioni di geografia, in un momento in cui è difficile parlare di frontiere e di confini, di centro e di periferia, e di attraversamenti, quindi a di chi ha bagnato i loro piedi in quel mare, di donne e bambini, cristiani e musulmani scambiati come merce in un momento in cui il mercante si confonde con il pirata. Il Mediterraneo che emerge dai miei studi sui testi del Trecento è un mondo con un linguaggio irripetibile e sempre vario e che trova una funzione multiforme ora descrittiva, ora strutturale, ora può assumere il ruolo di protagonista, ora può avere una funzione di agentività. Insomma la forma caratterizzante dipende dall’autore e dall’opera e non da categorie culturali. È in ogni caso un Mediterraneo che non è il mare amaro, lo spazio che il cristiano deve evitare perché simbolo delle tentazioni e del passioni del mondo, ma è anche e soprattutto uno spazio realistico che racconta l’industria e la creatività umana, un mondo che esce dal rifugio della terra e inaugura una nuova la civiltà con la scoperta di rotte commerciali un mare ormai demitizzato e quindi liberato dalle sirene e dalle divinità marine. È un Mediterraneo che scopro e illustro studiando le nostre “tre corone” del Trecento.

Come si racconta e che ruolo ha il mare nella Commedia di Dante?

L’immaginario del mondo marittimo è dappertutto nella Commedia di Dante e ha un ruolo strutturale all’interno dell’opera, tanto che io lo definisco un poema acquoreo. La definizione farà stupire, ma si ricordi che il poema si apre con un naufragio (“dal pelago alla riva”) e finisce con un’immersion nel “gran mar dell’essere”. Il poema è pieno di immagini marittime e di metafore nautiche, di spazi marcati da punti nautici, dalle colonne d’Ercole al Bosforo. Lo attraversano esploratori come Ulisse e gli Argonauti, e donne come Didone, Isifile ed Europa. Bella l’immagine di Dante pellegrino che dal Paradiso si “affaccia” sul mondo e come un astronauta offre una veduta dall’alto del Mediterraneo occidentale e orientale: dallo stretto di Gibilterra, attraversato dal “suo” Ulisse, alla costa fenicia dell’Asia Minore, il Libano, dove, secondo il mito, Giove sotto forma di toro rapì Europa per portarla a Creta (Par. XXVII). Dante è anche il primo a localizzare il mare geograficamente, anticipando gli studi di N. Purcell e P. Horden, e lo fa in relazione alle sue coste orientali e occidentali, e all’oceano, e quelle “discordanti” dell’Europa e dell’Africa di cui parla il suo Folchetto (Paradiso IX 82-87), il più Mediterraneo dei poeti, nato a Marsiglia e di origini genovesi: il Mediterraneo è la «maggior valle in che l’acqua [dell’oceano] si spanda» (Par. IX 82). Sebbene non sia «quel mar che la terra inghirlanda», il Mediterraneo ha le stesse caratteristiche dell’Oceano, con la sua capacità di inghirlandare le terre che bagna e di estendersi verso est tra i lidi opposti, Europa e Africa, ma includendo anche l’Europa. In tal modo Dante localizza l’Italia nel Mediterraneo. I suoi confini sono “i discordanti liti”, le coste che inghirlandano il mare.

In un momento in cui gli studi sul Mediterraneo rischiano di delimitare il loro scopo agli effetti del mare sulla vita di quelli che abitano le sue coste, con scarsa attenzione alle attività riguardanti strettamente la superficie dell’acqua, Dante, come David Abulafia in tempi più recenti, richiama la nostra attenzione al mare, a quella superficie quale spazio liquido, mobile e salato. L’immagine che appare nella copertina del mio libro, di uomini alle prese con la navigazione, tocca un motivo ricorrente nella Commedia. Per esempio per descrivere la punizione destinata ai barattieri, Dante si rivolge al mondo, fisico e acustico, marittimo dell’arsenale veneziano, con un’accuratezza e una precisione inaspettata. La frenesia e la dinamicità del luogo infernale si pone in termini antitetici all’operosità e produttività dell’Arsenale, che dal 1104 era uno dei più importanti all’epoca di Dante. Alla fraudolenta laboriosità dei barattieri, imbroglioni che si danno da fare per guadagnare sottobanco, si oppone l’onesto operare dei marinai e degli artigiani dell’Arsenale. La ricchezza e la precisione del linguaggio marittimo contribuiscono a provare che per il poeta il Mediterraneo non era uno spazio fantastico, popolato da mostri e sirene, ma uno spazio umano, che narra l’ingegno e l’industria dell’uomo che lavora, e la storia di uomini e donne che lo hanno attraversato.

Con i suoi versi, dall’Inferno fino al Paradiso, Dante ripercorre i luoghi del mito dall’Egeo al Tirreno, privandoli dell’aspetto fantastico per localizzare geograficamente i luoghi. Ricordiamo, ad esempio, Scilla e Cariddi. Un aspetto che mi ha commosso di questo studio della Commedia è l’attenzione dedicata alle figure femminili la cui vicenda è legata al mare: penso soprattutto ad Isifile. Ricordo infine il luogo centrale che occupa l’immagine e l’allegoria del Veglio di Creta, l’isola che sta al centro del Mediterraneo e che con il suo significato allegorico, pone un dato strutturale fondamentale nella storia dell’umanità quale Dante la concepisce.

Come viene rappresentato e cosa significa il mare per Petrarca?

Petrarca fu il solo delle tre corone ad avere un’esperienza diretta del mare. Dante nei giorni passati a Ravenna e in occasione della sua ambasceria a Venezia vide certamente il mare, ma non lo solcò mai neppure per brevi tratti. Boccaccio che ambienta nel mare molti dei suoi racconti, non pare abbia mai avuto esperienza diretta di navigazioni, anche se vivendo a Napoli potrebbe aver avuto l’occasione di qualche “barcheggiata” entro la baia. Petrarca, invece, racconta di ripetute esperienze di navigazione fatte fin dagli anni infantili, da quando dovette seguire il padre nell’esilio in Francia:

Petrarca si avvicina al Mediterraneo in due modi: in uno lo attraversa senza vederlo, in un altro si agita per attraversarlo, ma non riesce a muoversi. Il primo caso si ha nell’Itinerarium syriacum o Itinerarium in Terram Sanctam, che è la descrizione-guida di un viaggio in Terra Santa scritto per un amico che si accingeva a visitare quei luoghi. Il viaggio viene concepito come una navigazione che costeggia l’Italia e altre terre, e benché avvenga in nave, lo sguardo è puntato verso terra dove si indicano e ammirano monumenti e luoghi degni da essere visitati.

L’altro modo ha invece è descritto nelle opere latine e nel Canzoniere. Un’escussione di questo corpus non ci indica un’opera particolare dedicata al mare, ma ci offre un cospicuo numero di attestazioni in cui il mare ha un ruolo fondamentale e affatto inedito. Detto in modo sbrigativo, si capisce che Petrarca interiorizza il mare e ne fa il simbolo del suo tormento spirituale. Immagini ricorrenti con alta frequenza sono quelle del naufragio, della disperazione di raggiungere un porto, di navi incagliate, di vele squarciate, di sartie spezzate, di procelle, di onde travolgenti … insomma tutto un armamentario di un perpetuo viaggiare senza mai approdare a un luogo sereno. Quello che i Romani chiamavano Mare nostrum, diventa per Petrarca un Mare meum o un Mare Francisci, tanto l’innamorato di Laura si identifica con il mare. Non lo percorre né lo attraversa, ma vi sta immerso senza vista di orizzonte, senza cognizione di movimento nonostante la smania di uscire ‘dal pelago alla riva’. L’autore si avvale proprio di questa riduzione del mare a simbolo per potersi identificare con esso.

E il genio di Petrarca racconterà sé stesso raccontando il Mediterraneo che gli ribolle dentro, e sarà a suo modo un mare personale e indimenticabile.

Letture.org ( )
  AntonioGallo | Dec 19, 2020 |
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