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La fine di una stagione : memoria 1943-1945…
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La fine di una stagione : memoria 1943-1945 (édition 2000)

par Roberto Vivarelli

MembresCritiquesPopularitéÉvaluation moyenneDiscussions
1721,249,631 (3.75)Aucun
Membre:ReWoland
Titre:La fine di una stagione : memoria 1943-1945
Auteurs:Roberto Vivarelli
Info:Bologna : Il mulino, c2000.
Collections:Votre bibliothèque, En cours de lecture, Liste de livres désirés, À lire, Lus mais non possédés, Favoris
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La fine di una stagione. Memoria 1943-1945 par Roberto Vivarelli

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Questo libro è una difesa appassionata delle ragioni di una scelta che l'Autore, tredicenne, fece a favore di Salò, ma soprattutto contro il trasformismo di milioni di italiani, i quali, tra il 25 luglio e l'8 settembre, mutano da convinti sostenitori del regime a traditori del Paese, essendo la Resistenza un fatto del tutto minoritario o -meglio- che inizia minoritario e si allarga e si consolida in funzione delle vittorie militari e dell'avanzata degli Alleati lungo la penisola.
Volontario, per circa 18 mesi, in un reparto paramilitare nella zona di Milano, l'Autore vive le fasi convulse e conclusive del ventennio in modo non del tutto consapevole (come peraltro capitò a molti, in quel periodo) e scopre, ma solo alla fine della guerra, la faccia oscura del regime fascista, del nazismo e delle leggi razziali. Diventa poi azionista, aderendo a Giustizia e Libertà.
La liturgia della Resistenza, perfettamente comprensibile sul piano politico ma non condivisibile sul piano storico, ha liquidato frettolosamente la scelta di Salò come nemmeno discutibile, accomunando in un giudizio politico sommario tutti quelli che l'avevano fatta, come se fossero tutti della Banda Koch o ufficiali delle SS.
La guerra, qualunque guerra, è piena di episodi di violenza, ma la cosa è comprensibile e "normale" (a parte le vendette personali …). Il ruolo degli eserciti in combattimento (nella storia d'Italia, almeno da Bronte in poi) è prima di tutto salvaguardarsi e salvaguardare la forma organizzativa dello Stato che sta cercando di far affermare. Combattendo, cioè cercando di eliminare gli "altri", la violenza può essere un mezzo necessario. Ma, se e quando essa diventa il fine unico e ultimo delle azioni politiche e militari (leggi razziali, campi di concentramento, stermini di massa, crudeltà senza scopo, distruzioni etniche, e via elencando fino ad Abu Grahib) il giudizio necessariamente cambia.
Si potrebbe obiettare che lo squadrismo, per sua natura, fatalmente porta alla violenza gratuita, finalizzata al terrore, essendo quella forma di organizzazione politica, tipica dei regimi totalitari, la negazione del ragionamento e della discussione (emblemi truci, "me ne frego", manganello e olio di ricino). Ed infatti è proprio così: quella forma organizzativa è anche quella che più facilita l'emersione di figure ambigue e pericolose, mosse più da interessi personali e di propria affermazione anche fisica (soldi e potere) che da motivazioni etiche e filosofiche. Insomma non si diventa(va) gerarchi di partito per concorso ed esami ma sgomitando.
Vivarelli non era uno squadrista, bensì un tredicenne volontario combattente contro il tradimento del Paese (8 settembre), per la difesa della Patria e dell'idea (morale) di ripudio del tradimento, in nome della coerenza delle scelte, per la verità più familiari che sue (in tutto ciò ha un ruolo significativo il padre, fascista della prima ora, dalla Marcia su Roma, volontario nelle Guerre d'Africa e poi nella Seconda Guerra mondiale, ucciso in Jugoslavia dall'esercito di Tito).
Si percepisce, nel testo, che deve essere stato un travaglio non semplice uscire dall'illusione del valore preponderante dell'onore (rispetto alle ignominie della fuga e dell'abbandono dell'8 settembre) di fronte alla strumentalizzazione che di quel senso dell'onore veniva fatta.
Qualche "mito" giovanile però resta ancora, per esempio nella figura di Pavolini (detto anche "l'ultima raffica del regime"), evocato più volte nel racconto, eroe consapevole -come Leonida- di una fine inevitabile, cui si rassegna indomito. Leonida -e Pavolini- non erano necessariamente dalla parte della ragione, dice il nostro Autore, ma questo non importa, quel che conta è la coerenza.
Comunque non è sempre completamente convincente: un tragico destino sublimato dalla morte riscatta da una vita di ingiustizie (e infamie) ? Muti era davvero l'equivalente di Matteotti ? Io credo di no.
Ciononostante, i soldatini di Salò vanno rimessi nel loro ruolo, appunto, di militari e non di diavoli ossessi.
Vivarelli avrebbe facilmente potuto essere uno dei due soldati dell'epilogo di "Salò o Le 120 giornate di Sodoma" di Pasolini (1975), i quali, nel mezzo della spaventosa tragedia cui stanno partecipando, sulle note di una canzonetta popolare, decidono di improvvisare maldestramente qualche passo di valzer, mostrando così la loro dimensione umana. ( )
  ddejaco | Sep 28, 2013 |
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