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[I] Nel vedersi osservato con una certa curiosità da quel vecchio, Napoleone si voltò e disse, brusco: «Chi è questo brav'uomo che mi guarda?» «Sire, – rispose Myriel, – voi guardate un brav'uomo e io un grand'uomo. Ognuno di noi può cavarne profitto».
Myriel dovette subire la sorte comune a tutti quelli che arrivano per la prima volta in una cittadina dove ci sono molte bocche a parlare e pochissime teste a pensare. Dovette subirla nonostante fosse il vescovo e proprio perché lo era.
Il patibolo non è una struttura, il patibolo non è una macchina, il patibolo non è un congegno inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra una specie di essere dotato di non so quale tetra iniziativa; sembra che quella struttura veda, che quella macchina oda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro e quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria che la sua presenza suscita nell'anima, il patibolo appare terribile e partecipe di ciò che fa. Il patibolo è il complice del carnefice; divora; mangia la carne, beve il sangue. Il patibolo è una specie di mostro fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere una sorta di spaventevole vita fatta di tutta la morte che ha dato.
Non esiste una potenza che non abbia il suo seguito; non una fortuna che non abbia la sua corte. I cercatori d'avvenire turbinano intorno allo splendore presente.
Non vide nulla. Le persone oppresse non si guardano dietro. Sanno fin troppo bene che la mala sorte li segue.
Scarcerazione non è liberazione. Si esce dalla galera, ma non dalla condanna.
La storia trascura quasi tutte queste particolarità, e non può fare altrimenti; l'infinito la invaderebbe. Eppure questi particolari che a torto sono detti piccoli, – non esistono fatterelli nell'umanità, né foglioline nella vegetazione, – sono utili. Con la fisionomia degli anni si compone il viso dei secoli.
Povertà e civetteria sono due fatali consigliere; la prima brontola, l'altra lusinga; e le belle figlie del popolo se le trovano tutte e due, a parlar loro sottovoce all'orecchio, una per parte. Quelle anime mal custodite ascoltano. Donde le cadute che fanno e le pietre che si scagliano contro di esse. Si opprimono con lo splendore di tutto ciò che è immacolato e inaccessibile. Ahimè! e se la Jungfrau avesse fame?
Certe persone sono cattive soltanto per necessità di parlare. La loro conversazione, chiacchiera nel salotto, pettegolezzo nell'anticamera, è come quei caminetti che consumano in fretta la legna; hanno bisogno di molto combustibile; e il combustibile è il prossimo.
[II] Combattiamo, ma distinguiamo. È proprio della verità non essere mai eccessiva. Che bisogno ha di esagerare? Vi sono cose che bisogna distruggere e cose che bisogna semplicemente illuminare e osservare. L'esame benevolo e serio, che forza! Non portiamo la fiamma laddove basta solo la luce.
Nell'età in cui la giovinezza gonfia il cuore d'una imperiale fierezza, chinò più di una volta gli occhi sugli stivali bucati, e conobbe le ingiuste vergogne e gli strazianti rossori della miseria. Ammirevole e terribile prova, da cui i deboli escono infami, da cui i forti escono sublimi. Crogiolo in cui il destino getta un uomo, ogni volta che vuole un briccone o un semidio.
La digestione del male gli dava l'appetito del peggio.
Nulla in quel giardino contrastava il sacro sforzo delle cose verso la vita; in quel luogo la crescita venerabile era a casa sua. Gli alberi si erano chinati verso i rovi, i rovi erano saliti verso gli alberi, la pianta si era arrampicata, il ramo si era piegato, quello che striscia sulla terra era andato a trovare quello che si schiude nell'aria, quello che ondeggia al vento si era chinato verso quello che si trascina nel muschio; tronchi, ramoscelli, foglie, fibre, ciuffi, viticci, tralci, spine, si erano mescolati, traversati, sposati, confusi; la vegetazione, in un abbraccio stretto e profondo, aveva celebrato e compiuto in quel luogo, sotto l'occhio soddisfatto del creatore, in quel recinto di trecento piedi quadrati, il sacro mistero della sua fratellanza, simbolo della fratellanza umana. Quel giardino non era più un giardino, era un colossale cespuglio, ossia qualcosa che è impenetrabile come una foresta, popolata come una città, fremente come un nido, oscura come una cattedrale, odorosa come un mazzo di fiori, solitaria come una tomba, viva come una folla.
[III] La miseria di un fanciullo interessa una madre, la miseria di un giovane interessa una ragazza, la miseria di un vecchio non interessa nessuno. Di tutte le povertà è la più fredda.
Di che si compone la sommossa? di nulla e di tutto. Di un'elettricità sviluppatasi a poco a poco, di una fiamma scaturita d'improvviso, di una forza che vaga, di un vento che passa. Questo vento incontra menti che pensano, cervelli che sognano, anime che soffrono, passioni che bruciano, miserie che urlano, e le porta con sé. Dove? A caso. Attraverso lo Stato, attraverso le leggi, attravrso la prosperità e l'insolenza degli altri.
«Sono contento che abbiano spento la torcia, – diceva Courfeyrac a Feuilly. – Quella torcia tutta sgomenta al vento mi dava fastidio. Sembrava che avesse paura. La luce delle torce somiglia alla saggezza dei vili; illumina male, perché trema».
Lo scemare di una pila di scudi faceva cantare la Marsigliese ai banchieri. Si versava liricamente il sangue per la cassetta, e si difendeva con spartano entusiasmo la bottega, immenso diminutivo della patria.
La Bibbia dice: Moltiplicatevi. Per salvare il popolo, ci vuole Giovanna d'Arco; ma per fare il popolo ci vuole mamma coniglia.
«Queste mode ritornano, – diceva, – le anticaglie fanno furore, e le ragazze della mia vecchiaia si vestono come le vecchie della mia infanzia».
Il suo viso impallidiva e nello stesso tempo sorrideva. In esso non c'era più la vita, c'era un'altra cosa. L'alito scemava, lo sguardo si ingrandiva. Era un cadavere nel quale si sentivano le ali.
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